FAUSTO RICCI, BARITONO DI VITERBO
Maggio 1944, località Pian di Tortora, immediati dintorni di Viterbo.
“Sono il baritono Fausto Ricci ed ho un invito del maresciallo Kesserling per un concerto alle forze armate germaniche di stanza a Roma”. Esce dalla grotta dove era nascosto con la famiglia e mostra il documento all’ufficiale delle SS e all’interprete “Tu essere altro Fausto Ricci – rintuzzano i due con fare minaccioso - tu non essere baritono, fucilare, fucilare”. Vistosi perduto, Ricci, malgrado l’emozione del momento, intonò a gran voce il suo cavallo di battaglia, quel “Nemico della patria” (dall’Andrea Chenier di Giordano) che proprio in Germania gli aveva creato tanta popolarità, attribuendogli finanche il titolo di “cantante di Dio”. E questo bastò per chiarire l’equivoco.
In quegli anni difficili, con la seconda guerra mondiale ancora calda, Fausto Ricci era al termine della sua straordinaria carriera che lo vide nei principali teatri di tutto il mondo. Da ragazzo (era nato a Viterbo il 15 febbraio 1892) aiutava il padre nell’impresa edile come stuccatore. La sua voce imberbe ma robusta venne per caso ascoltata da Francesco Marconi, un affermato tenore di quel tempo, che lo avviò allo studio dalla contessa Giuseppina Vitali-Augusti di Roma. Dopo aver interpretato nel 1916 Carlo V nell’Ernani di Verdi al “Nazionale” di Roma, Ricci approdò nello stesso anno al teatro “Costanzi” nelle vesti di Amonasro dell’Aida. E fu subito successo. La sua voce squillante e potente ebbe nel tempo autorevoli estimatori fra cui Arturo Toscanini (“Ricci ha una voce grandiosa e di una bellezza incomparabile”), Mattia Battistini, Titta Ruffo ed Enrico Caruso che lo ascoltò nei primi esordi. Convinti apprezzamenti vennero anche da Mascagni e Serafini. Dopo la prima guerra mondiale, rientrato dal fronte, venne chiamato nel 1918 alla Scala di Milano per il Mosé di Rossini e subito dopo per Aida e Andrea Chenier. Il personaggio ormai c’era, anche perché curava molto la recitazione aiutato dai consigli di talenti come Zacconi e Ruggeri di cui s’era fatto amico. Grande prestanza scenica quindi e, soprattutto, una voce che molti a quel tempo non esitarono a definire “la più bella del mondo”.
Nel 1919 Ricci è alla “Pergola” di Firenze (Traviata) e al “Teatro Nuovo” di Verona (Lohengrin), poi al “San Carlo” di Napoli, al “Comunale” di Bologna, al “Regio” di Torino, al “Massimo” di Palermo. Nella sua città natale, sempre nel 1919, debutta all’”Unione” con il Faust. L’anno dopo è a Bergamo e Siena. Ancora a Viterbo in un concerto per beneficienza nel 1924 e nel 1938 in piazza del Plebiscito. “Il Giornale d’Italia” di quel 3 settembre scriverà “….egli seppe commuovere ed affascinare la folla che gremiva la piazza, scatenando alla fine applausi entusiastici”. Torna all’”Unione” di Viterbo nel 1939 per la Forza del destino (1939). Fu in questa occasione che riceve l’apprezzamento più gradito e più ruspante. Dalla galleria del teatro vola al suo indirizzo, in dialetto locale, la colorita esclamazione “Ammàzzete che pornelle”.
Chiamato all’estero, cantò nei principali teatri d’Europa (Vienna, Berlino, Madrid, Londra) e dal 1924 al 1927 in quelli dell’America Latina tra cui il prestigioso “Colòn” di Buenos Aires dove interpretò Marcello in una Bohéme ancora “fresca di stampa”. Nella capitale argentina si esibì anche per festeggiare il volo transoceanico di Francesco De Pinedo. Un critico musicale argentino scriverà “…di fronte alla voce di Ricci, quella degli altri cantanti non è adatta neppure a chiamare un taxi all’uscita del teatro”.
Ricci non amava le opere comiche e per questo non ha mai voluto cantare nel Barbiere di Siviglia. Preferiva le parti forti e drammatiche come quelle di Verdi.
Qualche curiosità. “Chi ha più polvere spari” avrebbe detto al soprano Lina Pagliughi dietro le quinte, prima di entrare in scena. Una volta gli accadde di sopraffare volutamente un’altra voce. Raccontava che durante una Traviata a Berlino, il soprano (una finlandese) cercava di stancarlo obbligandolo a fare molti giri sul palcoscenico; allora in un duetto sfoderò un tale acuto da sopraffare la malcapitata rivale. Ricci era un bell’uomo e quindi molto amato dalle donne. Una volta fu assalito da una focosa principessa tedesca proprio davanti alla moglie e per salvare la pace di casa non trovò di meglio che fare in fretta le presentazioni. Così il suo “Bitte meine Frau” mise subito all’angolo l’aitante nobildonna.
Ma ritorniamo alla scampata fucilazione. L’etichetta di antifascista gli cadde addosso per caso, in seguito al diverbio con un impresario che voleva imporgli un contratto capestro. Al suo rifiuto, come per vendetta, gli venne affibbiato il marchio di nemico del regime. In realtà Ricci non aveva mai fatto politica, si sentiva uno spirito libero e insofferente ad ogni imposizione. Questo lo portò ad essere ritenuto un personaggio scomodo e quindi da schedare e tenere “sotto controllo”. Ecco perché in quel giorno del 1944 se ne stava nascosto in una grotta nelle campagne di Viterbo in attesa dell’arrivo degli anglo-americani.
La sua discografia non è assortita ma di grande qualità. I suoi vinile sono molto ricercati dai melomani. Ha pure prestato la voce al film “Fiori senza primavera” (1938) ispirato alla vita di Johann Strauss.
Fausto Ricci ci ha lasciato anche un volumetto abbastanza prezioso dal titolo emblematico “Come si canta”.
Nell’ultima stagione della sua vita, quando ebbi la fortuna di conoscerlo, dirigeva a Viterbo una scuola di canto per indirizzare i giovani allo studio della lirica “...la musica – diceva – è la voce dell’umanità, per l’elevazione e l’affratellamento di tutti i popoli…”.
La città natale di Viterbo, dove morì il 4 novembre del 1964, gli ha dedicato una via in una traversa di via I. Garbini.
Vincenzo Ceniti